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Ambienti confinati, qualificazione e sospetti di inquinamento

Da un focus del Centro Studi Conflavoro, tutto quello che serve sapere sui cosiddetti ambienti confinati e sull’importanza della certificazione

Il tema della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro è un imperativo morale e un dovere civico, nonché un investimento essenziale per un’azienda che possa da un lato puntare al successo a lungo termine, dall’altro garantire un complessivo benessere individuale a ciascun lavoratore.

Nonostante i numerosi progressi in materia legislativa e la creazione di varie campagne di sensibilizzazione, gli infortuni sul lavoro – così come le malattie professionali – continuano a verificarsi, rappresentando un tema di assoluta centralità sul quale intervenire.

Tutto ciò è ancor più vero se per luoghi di lavoro si intendono situazioni in cui, per le caratteristiche dell’ambiente stesso o delle sostanze utilizzate, i lavoratori sono esposti ad un grado di rischio ancor più rilevante.

Si parla infatti di ambienti confinati o sospetti di inquinamento come quelle aree o spazi che presentano caratteristiche particolari che possono rendere pericolosa la permanenza dei lavoratori in tali spazi a causa di fattori come la presenza di sostanze tossiche, la carenza di ossigeno, l’instabilità strutturale o altri rischi potenziali.

Proprio per la varietà di caratteristiche che li connota, tali ambienti possono essere presenti in diversi contesti, tra cui l’industria, l’edilizia, le strutture sotterranee, i serbatoi, le cisterne, le condutture, i pozzi e così via.

Ambienti confinati o sospetti di inquinamento: definizione e peculiarità

Andando più nello specifico, si parla di ambienti confinati quando si fa riferimento ad ambienti non progettati per muoversi agevolmente e nei quali un eventuale recupero in caso di problematiche diventa particolarmente complesso.

Si parla invece di ambienti sospetti di inquinamento quando si tratta di ambienti contaminati da sostanze pericolose per l’uomo, ad esempio sostanze tossiche, nocive o esplosive.

Tali circostanze, proprio per l’elevato grado di rischio che presentano, sono disciplinate da una specifica normativa che ne declina le modalità specifiche di operato in sicurezza.

Il Dpr 177/2011 infatti, si presenta come un vero e proprio regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento di cui agli artt. 66 e 121 D. Lgs. 81/2008, o confinati di cui all’allegato IV punto 3 del D. Lgs. 81/2008.

Volendo riassumere le principali prescrizioni del Dpr in questione, l’art. 2 definisce i requisiti necessari per poter operare in ambienti confinati o sospetti di inquinamento, di seguito riportati:

  • attuazione delle normative in materia di valutazione dei rischi, sorveglianza sanitaria e attuazione di misure per la gestione delle emergenze;
  • presenza di personale, in misura non inferiore al 30% della forza lavoro, con esperienza almeno triennale in merito a lavorazioni in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione che i contratti in questione siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276.

In merito, la nota 694/2024 dell’INL precisa che “La misura del 30% deve intendersi riferita al personale impiegato sulla specifica attività, indipendentemente dal numero complessivo della forza lavoro della stessa azienda”.

Si precisa inoltre che il requisito dell’esperienza triennale deve necessariamente essere in possesso dei lavoratori con funzioni di preposto.

  • Informazione e formazione del personale, compreso il datore di lavoro se operante in tali circostanze;
  • Possesso di DPI, strumentazioni e attrezzature idonee alla prevenzione dei rischi con relativa attività di addestramento all’uso corretto e consapevole degli stessi in ambienti confinati o sospetti di inquinamento;
  • Avvenuto addestramento per le attività da svolgere in ambienti confinati o sospetti di inquinamento del personale impiegato;
  • Integrale applicazione della parte economica e normativa del CCNL applicato.

In linea con i requisiti necessari, l’art. 3 inoltre prescrive la necessità di attuare un’efficace procedura di lavoro diretta a eliminare o, ove impossibile, ridurre al minimo i rischi propri delle attività in ambienti confinati, comprensiva della eventuale fase di soccorso e di coordinamento con il sistema di emergenza del Servizio sanitario nazionale e dei Vigili del Fuoco.

L’importanza della certificazione negli ambienti confinati o sospetti di inquinamento

Come già anticipato, nell’art. 2 del Dpr 177/2011 la certificazione riveste un ruolo chiave nei contratti con lavorazioni in ambienti confinati o sospetti di inquinamento e lo è ancor più se si fa riferimento ai subappalti.

Nello specifico infatti, l’art. 2 c. 2 statuisce che In relazione alle attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati non è ammesso il ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni e integrazioni.
Le disposizioni del presente regolamento si applicano anche nei riguardi delle imprese o dei lavoratori autonomi ai quali le lavorazioni vengano subappaltate”
.

A chiarire ancor più quanto previsto dal presente comma, interviene la nota 694/2024 ribadendo la necessità di certificare il contratto di subappalto in caso di lavorazioni in ambienti confinati o sospetti di inquinamento.

Sempre l’INL si spinge oltre, precisando come “nel caso in cui l’impiego del personale in questione avvenga in forza di un contratto di appalto, occorrerà certificare i relativi contratti di lavoro del personale utilizzato dall’appaltatore – ancorché siano contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato – ma non certificare anche il contratto “commerciale” di appalto”.

In sostanza quindi, il ricorso alla certificazione dei contratti – ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 – è obbligatoria nei seguenti casi:

  1. Certificazione dei contratti di lavoro diversi da quelli di tipo subordinato a tempo indeterminato, riferendosi dunque a tutte le altre tipologie contrattuali, laddove tali contratti contribuiscano a formare il 30% di lavoratori con esperienza triennale;
  2. Certificazione dei contratti di lavoro, compresi quelli subordinati a tempo indeterminato, laddove l’impiego del personale avvenga in forza di un contratto di appalto. Non vi è tuttavia l’obbligo di certificare il contratto “commerciale” di appalto;
  3. Certificazione del contratto di subappalto in ambienti confinati o sospetti di inquinamento.

In merito allo strumento della certificazione, gli organismi preposti a tale compito sono individuati dall’art. 76 del D. Lgs. 276/2003 mediante un apposito e specifico elenco. Le Commissioni di certificazione costitute presso tali organismi, secondo quanto ribadito dalla nota 694/2024 si occuperanno non solo della verifica della modalità di esecuzione delle lavorazioni, ma anche della verifica sulla correttezza delle tipologie contrattuali dei lavoratori impiegati e della loro esperienza professionale, del possesso del DURC in capo alle imprese, dell’applicazione integrale del CCNL, degli adempimenti compiuti dal committente in relazione alla verifica dell’idoneità tecnico-professionale”.

In conclusione, nel caso in cui il datore di lavoro non ottemperi alle prescrizioni in materia di certificazione dei contratti di cui al D.P.R. n. 177/2011, esso è soggetto alla sanzione correlata alla mancata verifica dell’idoneità tecnico-professionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi, come previsto dall’art. 26, cc 1, lett. a) del D.Lgs. n. 81/2008. Tale sanzione comporta un’ammenda pecuniaria variabile da 1.423,83 a 6.834,44 euro, ai sensi dell’articolo 55, comma 5, lettera b) del D.Lgs. n. 81/2008, o l’arresto da due a quattro mesi.

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