Lavoro L’orario di lavoro: panoramica storica, normativa e particolari situazioniDal Centro Studi di Conflavoro un focus sul percorso normativo e sulle ultime disposizioni riguardanti l’orario di lavoro mercoledì 14 Febbraio 2024martedì 2 Aprile 2024 In occasione del centenario della prima norma sull’orario di lavoro – avvenimento rilevante per il mondo del diritto del lavoro e sindacale – il Centro Studi di Conflavoro ripercorre il percorso storico di tale istituto e prende in esame le particolari situazioni che potrebbero verificarsi durante l’instaurazione e la gestione dei rapporti di lavoro con le proprie risorse umane. Ormai un secolo fa, infatti, nacque la prima norma sull’orario di lavoro – il Regio Decreto Legge del 15 marzo 1923, n. 692 – che determinò l’imposizione di un limite massimo all’orario di lavoro effettivo, fissato in 8 ore giornaliere o 48 settimanali. Al di sotto di tali limiti era possibile praticare orari di lavoro ridotti – e dunque più favorevoli per i lavoratori – come quelli stabiliti dalla contrattazione collettiva e generalmente fissati in 40 ore, mediante l’adozione della cosiddetta settimana corta. La riforma organica dell’orario di lavoro Il Regio Decreto segna indubbiamente un passaggio fondamentale per la storia d’Italia e una conquista di notevole spessore per il movimento operaio che, da sempre, si era battuto contro i ritmi di lavoro estenuanti che portavano a prestazioni della durata di addirittura 16 ore giornaliere. Altrettanto indubbiamente, dal 1923 ad oggi le esigenze sono notevolmente mutate, nell’ottica di differenti modalità organizzative e anche per ragioni prettamente etiche legate alla tutela dell’integrità fisica del lavoratore e al favorire la partecipazione alla vita familiare e alla socialità in genere. Alla luce di questo e su spinta dell’Unione Europea – in particolar modo con la Direttiva n. 93/104/CE del Consiglio che ha raccomandato agli Stati membri di addivenire ad una riforma organica della disciplina dell’orario di lavoro – le principali norme del nostro ordinamento che intervengono sull’orario di lavoro in modo più incisivo sono: Legge n. 196/1997 (Legge Treu) che con l’articolo 13 introduce un orario normale di lavoro settimanale pari a 40 ore, prevedendo una prima forma di flessibilità attraverso una rimodulazione dello stesso su base plurisettimanale; D. Lgs. n. 66/2003 che attribuisce un ampio potere alla contrattazione collettiva, in grado di stabilire la durata massima settimanale dell’orario di lavoro purché la durata media – calcolata con riferimento a un periodo non superiore a 4 mesi – non superi, per ogni periodo di sette giorni, le 48 ore comprese le ore di lavoro straordinario. I contratti collettivi possono inoltre estendere il limite dei 4 mesi fino a 6 mesi ovvero fino a 12 mesi, a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi. Definizione del concetto di ‘orario di lavoro’ A differenza di altri istituti, l’orario di lavoro non viene definito nella Costituzione italiana. In essa troviamo infatti dei semplici richiami al concetto di orario di lavoro nell’art. 36 il quale, pur essendo principalmente orientato al trattamento retributivo, è una linea guida generale per l’orario di lavoro attraverso il comma 2, che rimette al legislatore la fissazione della durata massima della giornata di lavoro, e il comma 3, che sancisce il diritto irrinunciabile al riposo settimanale e alle ferie. Le motivazioni che portano alla necessità di definire dei limiti all’orario di lavoro sono, come brevemente anticipato, la necessità di regolazione e definizione del tempo di lavoro da ricondurre alla finalità di salvaguardia della salute e dell’integrità psico-fisica del lavoratore e la necessità di impostare il rapporto tra trattamento retributivo e impegno del lavoratore, definendo l’impegno normale che corrisponde all’ordinario trattamento retributivo. Controversie e requisiti Il concetto di orario di lavoro tuttavia risulta a volte controverso in quanto comprende in sé elementi che, se non debitamente definiti ed interpretati, possono portare ad una cattiva gestione del rapporto di lavoro e, nei casi più gravi, all’insorgere di controversie e contenziosi. Tali elementi derivano dalla definizione stessa di orario di lavoro, contenuta nell’art. 1 del D. Lgs. 66/2003 e così formulata: “Si intende per orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Da questa definizione discendono tre requisiti che devono essere compresenti per poter collocare un determinato segmento temporale nell’orario di lavoro. Essi riguardano le seguenti situazioni: essere al lavoro; essere a disposizione del datore di lavoro; essere nell’esercizio della propria attività e delle proprie funzioni. Questi elementi che, come abbiamo anticipato, devono essere compresenti, determinano il perimetro di realizzazione della prestazione lavorativa, da cui discendono diritti ed obblighi per le parti contrattuali. Mentre il terzo punto risulta piuttosto chiaro e facilmente determinabile, sono i punti 1 e 2 a destare il maggior numero di dubbi. Nello specifico, ad alimentare ipotesi di controversie sono alcune situazioni particolari come i tempi di vestizione, i tempi di spostamento e la reperibilità. Analizziamoli nel dettaglio. Il “tempo tuta” Il tempo di vestizione è necessario nel momento in cui il datore di lavoro, in forza del proprio potere organizzativo, impone al lavoratore di indossare una determinata divisa per questione di immagine o perché funzionale e necessaria all’esecuzione della mansione stessa. Il cosiddetto “tempo tuta” è oggetto di una rilevante giurisprudenza che, nel corso degli anni, ha seguito una linea costante e ben precisa. Tra gli interventi più rilevanti e recenti troviamo l’Ordinanza della Cassazione 7 giugno 2021 n. 15763, la quale, in linea con precedenti pronunce, rinvia sostanzialmente al concetto di eterodirezione precisando che: “Nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo necessario a indossare l’abbigliamento di servizio (“tempo tuta”) costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, in difetto della quale l’attività di vestizione rientra nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore e non dà titolo ad autonomo corrispettivo (così Cass. n. 9215 del 2016 e, con espresso riferimento alla Direttiva comunitaria n. 2003/88/CE, invocata da parte ricorrente nel terzo motivo, cfr. Cass. n. 1352 del 2016)”. Riprendendo inoltre l’Interpello n. 1/2020 del Ministero del Lavoro, che si allinea con gli orientamenti della Corte di Cassazione, è doveroso precisare quanto segue: il tempo impiegato per la vestizione non può essere considerato orario di lavoro nel caso in cui il lavoratore abbia in dotazione gli indumenti di lavoro e abbia la possibilità di portarli al proprio domicilio per poterli indossare, recandosi dunque al lavoro con gli indumenti già indossati; rientra nel concetto di orario di lavoro il tempo impiegato per indossare gli indumenti laddove il datore di lavoro, una volta forniti gli stessi, imponga il vincolo di conservarli e di indossarli sul posto di lavoro. Quanto detto vale anche per il cosiddetto “tempo doccia”, il quale deve essere retribuito laddove sia eterodiretto dal datore di lavoro, che ne disciplina tempo e luogo di esecuzione. Il tempo di spostamento Il tempo di spostamento segue un ragionamento simile a quanto sopra esposto, partendo dall’analisi del nesso esistente tra spostamento e mansione, da lì determinando il computo o meno dei tempi di spostamento nell’orario di lavoro. Secondo l’orientamento ormai consolidato della Cassazione, il tempo di spostamento necessario per raggiungere un diverso luogo di lavoro deve essere computato nell’orario di lavoro nel caso in cui lo spostamento sia funzionale all’esercizio della prestazione. Di questo parere è anche la Commissione Europea la quale, basandosi sull’art. 2, punto 1 della Direttiva 2003/88 del Parlamento europeo e del Consiglio, analizza varie tipologie di spostamento dei lavoratori e riconduce all’orario di lavoro i tempi di spostamento realizzati alla luce delle seguenti caratteristiche: lo spostamento è strumento necessario per l’esecuzione della prestazione presso clienti o altre sedi di lavoro in quanto i lavoratori sono nell’esercizio delle loro attività; il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro in quanto segue un itinerario che non dà la possibilità di disporre liberamente del proprio tempo e di dedicarsi ai propri interessi nel corso di tale periodo; il tempo di spostamento costituisce parte integrante del lavoro e il luogo di lavoro di tali lavoratori non può pertanto essere ridotto ai locali dei clienti del loro datore di lavoro. Per quanto riguarda il tempo di viaggio giornaliero verso un luogo di lavoro fisso, non vi sono indicazioni che tali periodi debbano essere considerati orario di lavoro ai sensi della Direttiva, in quanto i lavoratori che svolgono la prestazione in un luogo di lavoro fisso, possono calcolare la distanza tra il proprio domicilio e il luogo di lavoro e organizzare liberamente il proprio tempo durante il tragitto di andata e ritorno. La reperibilità La reperibilità è l’obbligo del lavoratore di rendersi rintracciabile dal datore di lavoro per ragioni di urgenza e di indifferibilità al di fuori del proprio orario di lavoro, al fine di svolgere una prestazione lavorativa e di raggiungere in tempi celeri il luogo di lavoro. A partire dal 2021 con due sentenze di particolare autorevolezza della Grande Sezione della Corte di Giustizia Europea datate 9 marzo e 9 settembre, il focus della questione viene posto sul grado di libertà del lavoratore. In sostanza, la Corte sostiene che la condizione di reperibilità del lavoratore non possa incidere sulla libertà di autodeterminazione del lavoratore stesso, che pur deve assicurarsi di essere contattabile e di poter svolgere i propri compiti se chiamato. Se tale condizione è rispettata, allora il tempo di reperibilità è assimilato a quello delle pause e pertanto non viene conteggiato nell’orario di lavoro e non è retribuito. In conclusione quindi, “La Corte ha statuito che un periodo di guardia in regime di reperibilità, vale a dire un periodo durante il quale il lavoratore resta a disposizione del suo datore di lavoro al fine di poter garantire una prestazione di lavoro, su domanda di quest’ultimo, pur non essendo obbligato a rimanere sul suo luogo di lavoro, deve parimenti essere qualificato, nella sua interezza, come «orario di lavoro», ai sensi della direttiva 2003/88, qualora, tenuto conto dell’impatto oggettivo e assai significativo dei vincoli imposti al lavoratore sulle possibilità, per quest’ultimo, di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali, esso si distingua da un periodo nel corso del quale il lavoratore è tenuto unicamente a rimanere a disposizione del proprio datore di lavoro affinché quest’ultimo possa raggiungerlo”. Conclusioni Pur riconoscendo l’importanza e la centralità del concetto di orario di lavoro, le disposizioni normative risultano essere scarne e spesso non del tutto chiare. In luogo di ciò, una vasta giurisprudenza, caratterizzata da forte autorevolezza, si è diffusa nel corso degli anni e risulta essere una valida linea guida per una corretta instaurazione dei rapporti di lavoro e una sana gestione degli stessi. Non va tuttavia trascurata l’importanza dei contratti collettivi che, in ragione delle peculiarità dei vari settori economici, statuiscono previsioni differenti mediante l’utilizzo di strumenti di flessibilità al fine di valorizzare la produttività, l’efficacia e l’efficienza aziendale, nel pieno rispetto dei diritti dei lavoratori e con ampia tutela dell’integrità psico-fisica. Proprio in ragione di ciò, Conflavoro e le controparti sindacali da anni ambiscono a sottoscrivere CCNL finalizzati all’attenzionare le reali esigenze delle imprese circa l’orario di lavoro – in funzione un’occupazione sana e sostenibile – prevedendo orari di lavoro differenziati a seconda dei settori economici disciplinati e incoraggiando l’utilizzo di strumenti di flessibilità, multiperiodicità ed elasticità dell’orario di lavoro che possano da un lato sostenere le esigenze temporanee ed imprevedibili dell’attività aziendale; dall’altro mantenere alta l’attenzione sul lavoratore, tutelando la salute psico-fisica e la necessità di socialità. Conflavoro, in conclusione, riconosce la necessità di sostenere le imprese nella ricerca di best practice per gestire al meglio le proprie risorse umane, anche mediante attività sindacali che possano calzare a pennello alle singole realtà imprenditoriali, in linea con le mutevoli esigenze del mercato e delle stesse aziende. 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