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Salario minimo, Corte di Giustizia Europea: direttiva UE, c’è ingerenza

La Corte conferma la legittimità dell’impianto della Direttiva, ma evidenzia un’ingerenza diretta nell’operato degli Stati membri in relazione al salario minimo

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L’adozione della direttiva UE 2022/2041 sul salario minimo adeguato ha rappresentato uno dei passaggi più rilevanti del recente diritto europeo. Il provvedimento nasce con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro attraverso l’introduzione di un quadro comune di garanzia dei salari, lasciando tuttavia impregiudicata la competenza nazionale sulla fissazione delle retribuzioni.

L’obiettivo della Direttiva sul salario minimo

La direttiva infatti non impone un’armonizzazione del salario minimo nell’Unione, né ambisce a istituire un meccanismo univoco per la determinazione degli stessi, ma mira a rafforzare i sistemi esistenti valorizzando la contrattazione collettiva, in linea con il diritto e la prassi nazionale.

In quest’ottica, la direttiva incoraggia la diffusione della contrattazione collettiva negli Stati membri, stimolando una copertura di almeno l’80%, nella convinzione che una “contrattazione solida e ben funzionante (…) rafforza l’adeguatezza e la copertura dei salari minimi”. Promuove e tutela quindi sia il diritto alla contrattazione collettiva – inteso come diritto alla determinazione dei salari e alla protezione dei lavoratori e dei loro rappresentanti – sia il diritto di associazione, volto a proteggere sindacati e organizzazioni datoriali da atti di interferenza reciproca o da parte della controparte.

Il commento di Conflavoro sulla sentenza della Corte di Giustizia

Secondo l’Area Relazioni Industriali di Conflavoro, l’intero iter che ha condotto alla stesura della direttiva e alla successiva sentenza della Corte di giustizia dell’11 novembre 2025 va letto proprio alla luce della necessità di un equilibrio: da un lato l’interesse dell’Unione a promuovere un sistema salariale equo; dall’altro il riconoscimento dell’autonomia degli Stati membri in materia retributiva.

All’interno di questo quadro si inserisce il ricorso della Danimarca, sostenuto dalla Svezia, che ha chiesto alla Corte di verificare se la direttiva avesse travalicato i limiti dell’articolo 153, paragrafo 5, TFUE, il quale esclude dalla competenza dell’UE la definizione delle retribuzioni e la disciplina del diritto di associazione.

La sentenza sulla causa C-19/23 delinea quindi i confini: la Corte conferma la piena legittimità dell’impianto generale della direttiva, ribadendo che l’Unione può intervenire sulle condizioni di lavoro e sulla promozione della contrattazione, purché non incida direttamente sulla determinazione salariale o sulle dinamiche di affiliazione sindacale.

Entro questo perimetro, la Corte individua due previsioni dell’articolo 5 che rappresentano un’ingerenza diretta nell’operato degli Stati membri:
• articolo 5, paragrafo 2: obbligo per gli Stati membri di utilizzare criteri predeterminati (potere d’acquisto, livelli e distribuzione dei salari, crescita salariale, produttività) per la quantificazione e l’aggiornamento del salario minimo. Si tratta, secondo la Corte, di un’ingerenza eccessiva in un ambito che appartiene esclusivamente alla competenza nazionale;
• articolo 5, paragrafo 3: divieto di riduzione del salario minimo legale quando operi un meccanismo automatico di indicizzazione. Anche questa norma, annullata, avrebbe vincolato gli Stati nelle scelte di politica retributiva, incidendo di fatto sul livello dei minimi.

Conclusioni

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea assume una valenza significativa anche nella promozione della contrattazione collettiva come strumento cardine della definizione dei salari, in linea con un modello di relazioni industriali che valorizza pluralità contrattuale, autonomia negoziale e capacità delle parti sociali di costruire soluzioni proporzionate ai diversi settori produttivi. Al tempo stesso, l’annullamento delle disposizioni che avrebbero inciso indirettamente sui livelli retributivi conferma un principio essenziale: la politica salariale non può essere uniformata dall’alto né vincolata a criteri predeterminati dall’Unione, perché radicata nella specificità dei sistemi produttivi nazionali e nella libertà negoziale delle parti.

La sentenza restituisce dunque centralità all’autonomia contrattuale e rafforza un approccio che Conflavoro sostiene da anni: un’Europa che favorisce la qualità della contrattazione e promuove condizioni comuni di tutela senza comprimere le prerogative degli Stati né la libertà di associazione.

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